Umberto Orsini è uno degli ultimi miti artistici italiani, straordinario interprete di mille personaggi indimenticabili, visti su schermo cinematografico, televisivo o dal vivo, a teatro. I suoi film vanno da “La caduta degli Dei” di Luchino Viconti a “Il viaggio della sposa” di Sergio Rubini. A teatro ha lasciato un segno indelebile con “Morte di un commesso viaggiatore” e chi ha i capelli bianchi lo ricorda in televisione ne “La Pisana” o “I fratelli Karamanzov”, fino al più recente “Lourdes”. Classe 1934, ha debuttato ne “La dolce vita” di Fellini e, nonostante gli studi in legge, aveva 23 anni quando debuttò a teatro. Oggi, mezzo secolo più tardi, lo possiamo ammirare al Teatro Grassi di Milano ne “Il Padre”, opera di August Strindberg scritta nel 1887 e interpretata con energia e prestanza fisica che contraddicono la sua età anagrafica.
Perché ha scelto di recitare in un’opera drammatica di fine ‘800?
Perché il testo me l’aveva consigliato Luca Ronconi e mi era piaciuto. Adorerei interpretare un personaggio comico, potendo scegliere. Ma approvo la regia di Massimo Castri, che regala spunti ironici e provoca la risata. Si parla di un uomo che perde le sue certezze, che si sente solo e prevaricato dalla donna, che non solo si occupa dei figli ma li fa. Questa constatazione lo annienta e pensa perfino di potersi appropriare della figlia quasi solo mangiandola, inglobandola.
Il problema è dovuto a una lite con la moglie che gli fa credere di non essere il padre, però. Un uomo a cui viene tolta la sicurezza di essere padre, può impazzire?
Sopraggiunge una pazzia dolce, si vuole morire come per rientrare nel grembo della madre. E’ un assurdo, quanto accade sul palco, è un’utopia. Il protagonista, militare di carriere ma esperto in mineralogia, cerca la sua salute nelle scoperte scientifiche e studia le meteoriti. Vive circondato da donne e vorrebbe che la figlia diventasse insegnante, andando a studiare in città, libera dall’influenza della suocera, che si occupa di spiritismo o delle manie religiose della governante. Ma la madre non vuole rinunciare a tenere la figlia in casa ed escogita un modo per evitarlo. Questi sono gli uomini di un secolo e mezzo fa, bene educati, si immagini gli altri. Perfino Nietzsche lesse Strindberg e fu attratto dalla figura del capitano, che dice “La vita è un inferno, la morte è un paradiso”.
Com’è, interpretare questo personaggio?
Strindberg ha scritto un testo molto intrigante e ora, alla duecentesima replica, è molto meglio. La durata può variare, io posso fare in modo che sia più a o meno lunga, a seconda di come il pubblico reagisce, se mi capisce, se assimila le battute. Su un certo tipo di pubblico posso essere più veloce. In questo senso lo spettacolo è vivo, perché si modella a seconda degli spettatori presenti in sala. Loro non lo sanno ma c’è sempre un concorso di colpa o di merito, se le cose vanno male o bene: ti dai di più e risulti più bravo quando il pubblico ti risponde.
Domandina banale: meglio il teatro, il cinema o la televisione?
Diciamo che io decido come fare il teatro ogni volta che salgo sul palco. Se stesse a me decidere anche quanto si fa al cinema o in televisione sarebbe meglio, ma non è così. Con il cinema e le trasmissioni televisive non posso prendere decisioni ma solo assecondare quelle altrui. Non sarebbe sbagliato se venisse applicata la stessa intelligenza che ritengo di usare io. Mi arrogo, alla mia età, il diritto di considerarmi capace di scegliere bene, perché bisogna avere delle teste pensanti, non solo il potere di prendere decisioni. Oggi ritengo di essere uno dei pochi esperti in fatto di scelte vincenti e lo dimostra la mia carriera e ho il diritto di credere che non sbaglio. Perché dovrei? Ho il tempo per decidere. Eppure non basta per fare tutto ciò che si vuole. Così mi accontento del teatro e di altre piccole cose. La libertà di dire sì o no mi resta!
E tutto questo come la fa sentire?
Io sono contentissimo, felicissimo di essere contento delle scelte fatte nella mia vita.
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